23 maggio 2012

Ricordi



L'uomo che mi siede accanto ha un modo liquido di accarezzare l'ombrello che stringe tra le mani. Non lo accarezza tutto, ma si concentra sul manico, su quel capo ricurvo che mi ricorda il collo sottilissimo di un airone, archetipo ligneo di tutti i colli di airone del mondo. 

L'uomo fa scivolare la mano sul bastone, giù e poi di nuovo su, in un'onda dolce, e lascia che il suo sguardo, posato sulle scarpe della ragazza indiana che gli sta di fronte, ciondoli sul mare dei gesti meccanici. Leggo, in quella risacca di carne, un empito di protettività, come se l'ombrello ne avesse viste di tutti i colori e si fosse guadagnato il diritto a una mano sollecita pronta a rincuorarlo. "E' tutto finito", "Calmati, calmati" o "Sei stato bravo", "Hai fatto il tuo dovere" sussurra in gesti continui l'uomo al suo ombrello e io penso che potrei voltarmi di colpo e spostare quel palmo pesante sulla mia testa. Ma poi immagino che l'uomo noterebbe la deviazione imposta alla sua tenerezza e io sembrerei stupida, irrimediabilmente stupida. 

E' una parola efficace, stupida: Stupida parla e qualcosa di selvaggio le risponde in me, trascinandomi al fondo di una caverna roboante terrori e senso di inadeguatezza. Ho sempre avuto paura di essere stupida, di essere presa per stupida. Di venir trattata come se lo fossi. Le spine che adesso premono a lato dei miei occhi sono state depositate da una folata di vento sfuggita allo stomaco di quella caverna? Oppure sono cristallizzazioni dell'aroma di tabacco che, in pulsazioni ritmiche, si solleva dall'uomo fino al mio viso, dall'uomo fino al mio naso? Potrebbero essere il giaccone di velluto o la sciarpa scura: accucciati come cani sul bracciolo di una poltrona o sul becco di un appendino, li vedo mentre inspirano il fumo ballerino che si congeda dalla gola del loro padrone. Potrebbero essere i capelli, che si impregnano della nostra vita come dei calchi di odore, umore, sapore. Potrebbe essere persino l'ombrello, se l'uomo ha acceso l'ultima sigaretta in strada, camminando sotto una cupola di settembre asciutto, con i piedi lanciati come avanguardia coraggiosa tra l'acqua e l'asfalto madido di pioggia. Eppure io mi convinco che sono le mani, a sapere di tabacco, a parlare di sigarette accese e di mozziconi spremuti fino all'ultimo respiro. 

Qual è il criterio di selezione della nostra mente? Quali sono il peso e le misure immateriali che l'inconscio adotta nella sua cernita incessante: ricordo prezioso, perla grigia o rosa da infilare sul filo delle memorie emerse, oppure ricordo superfluo, guscio vuoto da gettare sul fondo, giù giù nel dimenticatoio? Ho chiamato un migliaio di volte a raccolta le mie forze psichiche, nel tentativo di imprimermi un qualche accadimento inusuale o un evento emozionante nell'archivio del pensiero, e tutto ciò che mi avanza di quegli esperimenti è il ricordo di me che cantileno il mantra del "questo lo voglio ricordare, questo lo voglio ricordare".
Quando ero piccola mio padre mi calava il palmo aperto della mano sul viso, carezza in volo che si sollevava all'improvviso: chiudevo gli occhi per il tempo breve di quel passaggio e quando li riaprivo l'odore della nicotina aleggiava incerto, per qualche istante ancora, attorno alle mie narici. Non ho mai fatto sforzi per tatuarmi la mano al sapore di tabacco di mio padre sulla pelle vaporosa della mente, eppure, a distanza di trent'anni, la mano è ancora lì, stella a cinque punte che pulsa di luce e foglie d'oro nella notte della memoria e che, a intermittenze lunghissime, riversa su me una remota serenità. Neppure ho scelto che la corolla di tabacco che si è schiusa nella mia bocca fosse il ricordo più vivido che ho del mio primo bacio. Se solo lo voglio, il bagaglio della mia vita si rivolta, si spalanca e sputa fuori quel momento: la lingua che più ho desiderato che finalmente mi esplora, un sapore di fumo che biancheggia sulle papille gustative e io che accolgo come verità confusa l'idea che il tabacco sia, per eccellenza, l'aroma di un uomo. Ho iniziato a fumare qualche mese dopo quel bacio e sotto un cumolo inerte di cenere e brasche ho sepolto la sensibilità del mio naso a quell'odore inconfondibile. I baci del mio ragazzo divennero insapori, le carezze di mio padre persero la loro scia olfattiva e di lì in poi sembrarono tristi, prive di verve, come un pavone con la coda spennata o un disco suonato da un apparecchio afono.
Mentre i miei trentasette anni di vita mi sballonzolano addosso, come gelatina scossa dai singhiozzi del tram, mi domando ora il perché di quella primigenia, lontana deriva anestetica. 
Consapevolizzo che oggi riesco a percepire il canto odoroso del tabacco perché da tempo ho chiuso con le sigarette, perché da mesi non ho addosso le dita di qualcuno, e mi chiedo cosa mi avanzerà, negli anni, di quest'uomo che accarezza un manico d'ombrello.

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