21 maggio 2012

Post Mortem


Quando decisi che mi sarei fatta cremare avevo 29 anni.

Fino a quel momento il problema del post mortem era un qualcosa dal quale avevo fatto in modo di tenermi a debita distanza mentale. Il punto è che faticavo proprio a pensare al dopo

La mia gradazione religiosa era sempre stata pressoché nulla e se la zia Ada era un distillato vischioso di devozione e preghiera, io, con i quattro anni di catechismo che avevo seguito solo ed esclusivamente in nome della socialità infantile, potevo tuttalpiù ambire al grado di centrifugato annoiato di idee domenicali. Della mia prima comunione ricordo due sole cose: l'antipatia con la quale, per tutta la cerimonia, di sottecchi da sotto il velo bianco avevo studiato le mani sterili di Don Peppino pronte a planarmi ancora una volta sul capo e la foga con la quale, a cerimonia finita, avevo raggiunto sul sagrato il papà, che in chiesa non si sognava neppure di metter piede, per comunicargli, quasi urlando: "Io la cresima non la voglio fare". I miei genitori accolsero con soddisfazione la mia determinazione da piccoli atei crescono e così io non misi più piede in una chiesa, né all'oratorio o nell'aula di religione.
La notte prima il mio gatto Alisso era rientrato dalla porzione di porta che lasciavo aperta a lui e alla sua vena selvaggia verso le cinque di mattina. Lo so perché mi ero svegliata a un suono sordo, come di una anta che sbattesse con delicatezza musicale, ma che nella realtà proveniva dalla zampina di Alisso buttata sotto il mio comò e intenta a dar il tormento a qualcosa. Io avevo troppo sonno e troppa poca luce a disposizione (nella casa nuova, nella quale pernottavo per la seconda volta, il parco luci si limitava a due lampade a soffitto in cucina e ad una applique di vetro in stile liberty in bagno) per tentare di salvare da sgrinfie gattesche l'ennesima lucertola. Avevo lasciato perdere i buoni propositi subito e non avevo neppure tentato di slegare il mio corpo alla rapina dolce delle lenzuola, né di spazzar via le nubi pastose del sonno. Alle sette- che sono un orario inedito per me e per la mia vita disordinata- avevo spalancato gli occhi con un allarme da giorno di esame orale alla maturità, pensando di certo all'animaletto che, senza il buio ad ottenebrarmi occhi e coscienza, ora sentivo di dover soccorrere. 

La prima cosa che vidi fu Alisso, spostatosi con tutto il suo armamentario venatorio, fatto di muscoli contratti, coda a metronomo e orecchie basse, davanti alla Billy di fortuna dietro la porta. Chiaramente io non avevo mai registrato il fatto che la libreria seriale di mamma Ikea e il mio muro avessero frapposto alla loro convivenza forzosa un anfratto di pochi centimetri (e in ogni caso, se anche lo avessi notato, non sarei di certo arrivata e supporne gli effetti collaterali possibili); così, prima conseguenza diretta dell'esistenza di questa no furniture's land fu un topolino atterrito imbottigliato in un buco troppo angusto perché io potessi anche solo infilarci le dita.
Ero costernata: per motivi a me oscuri, sotterranei (perché le lucertole hanno pur sempre la via di fuga dolorosa del rimetterci la coda? Oppure perché i rettili che avevo visto sopravvivere all'antro di Barbablù della bocca di Alisso erano numerosi, mentre i roditori, come gli uccelli, in quel cavo orofaringeo ci lasciavano sempre le penne?) rispetto a una lucertola un topino mi sembrava più indifeso e, quindi, nettamente più bisognoso di quell'aiuto che, poche ore prima, il mio dormiveglia gli aveva negato. Mi sono rosicchiata le dita saltellando sul posto come un'isterica, sono corsa in cucina alla ricerca di un guanto in lattice, ho farfugliato, in forma di improperi, le mie rimostranze ad Alisso che adesso, con sguardo sornione, soppesava la mia operosità sprofondato tra le coperte, già pronto a infilare la testa nella ciambella del suo corpo e abbandonarsi a un appagato riposo. Dopodiché, la cosa più sensata da fare mi è sembrata quella di prendere una matita colorata e dare di piatto un leggerissimo colpetto al topo, per farlo muovere nella mia direzione e prenderlo poi amorevolmente tra le mani per restituirlo alla sua vita di campagna. Curiosamente il topo, invece di lanciarsi fiducioso tra le mie braccia, ha preferito infilarsi con uno scatto fulmineo tra lo zoccolino e il retro della Billy, lasciandomi con un palmo di naso e con la preoccupazione del: come farà a trovare la porta?

Quattro giorni dopo, un odore montante di pomodoro marcito ai piedi della pianta ha denunciato la presenza in casa del topo o, con maggiore probabilità, del suo cadavere.

Appena spostata la libreria l'ho visto, corpo minuscolo e accartocciato avvolto in un batuffolo di polvere come in un sudario compassionevole. Non ce l'ho fatta a prenderlo con le mani, neppure dopo avere infilato i guanti: era troppo morto, troppo al di là. Ho impugnato una scopa vecchia, per spingere il cadavere sulla paletta e poi buttare tutto, utensili, corpo e sensi di colpa, nella spazzatura.  Non appena l'ho toccato, però, il topo, morto su un fianco, ha rotolato sulla pancia e da lì, come da un otre rovesciatosi, si è svuotato di una cascata di vermi che si sono sparpagliati sul pavimento. Non erano i vermi che mi ero figurata leggendo Dylan Thomas o guardando le dieci puntate di The Pacific sulla seconda guerra mondiale: quelli partoriti dalla mia mente erano vermucoli bianchi, sottili e ciechi. Il ventre del topo invece aveva vomitato dei vermi spessi, grossi anacardi marroni che si contorcevano con furia convulsa e che sembravano rivoltarsi verso di me, come a fissarmi irati per il pasto che ero arrivata ad interrompere. Ho serrato gli occhi e ho continuato a spingere quella matassa di carne rosa e marcescente sulla paletta. Mi arrivavano in viso ondate di puzzo, un fortore intermittente e denso come fumo mi sferzava le narici, penetrante, agro e dolciastro insieme. Sono riemersa da dietro la libreria in preda ai conati di vomito, che non portavano su altro che aria, sgomento e la febbricitante consapevolezza che, alla fine della via, un’orda sorda di vermi attende anche me.
Non mi avrà.

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